MNESTRA E SAMBOT

Abbiamo avuto una strana occasione per recuperare una dimensione intima e rallentata del Natale.
La dimensione giusta per dedicarci alla contemplazione del nuovo nato e all’ascolto dei nostri cari, quelli più intimi, più vicini. Quelli che a volte si rischia di dare per scontati. Quelli che guardiamo tutti i giorni e quasi non vediamo più, perdendo così la potenza e la magia della contemplazione, che è un modo straordinario di portare un po’ di divino anche nella nostra vita, nella nostra casa. Cum – templum: era l’augure che divideva mentalmente il cielo e ne sceglieva una parte soltanto, nella quale osservare il volo degli uccelli e da quello capire la volontà divina. Da quel gesto sacro, simbolico, augurale, la contemplazione è diventata una nostra arma per meravigliarci, stupirci, avvicinarci a Dio.
È un Natale di contemplazione e di ascolto. Un Natale dove la tavola si è accorciata, ma gli affetti si sono rinforzati, perché messi alla prova.
Un Natale di assenza che ci ridà il senso dell’essenza e della presenza. Un Natale strano del quale ricorderò una frase che mio suocero ha pronunciato con una naturalezza estrema e che davvero è essenza.
Appartiene ad una sua storia familiare, perché anche a lui è stata raccontata da bambino. Uno di quei racconti che si tramandano da nonna a nipote e si annidano lì, nelle pieghe della mente e del cuore, dove si appiccicano e restano incollate per sempre.
Erano i giorni del Natale del ’45 – quello sì, caratterizzato dalla povertà delle tavole e dalle troppe assenze – e nella vecchia casa contadina di Fodico, una frazione di Poviglio, nella bassa reggiana, un uomo troppo magro, sporco, con i vestiti strappati e laceri, le scarpe bucate, la barba lunga e irsuta, gli occhi talmente spaventati e famelici da sembrare di ghiaccio, si aggirava per l’aia con fare familiare. Beatrice, la nonna di mio suocero, era fuori al sambòt, ha guardato l’uomo, senza riconoscerlo, ed è rientrata in casa. Si è rivolta ad una delle sue nuore e le ha detto: “Fuori c’è un giramondo, portagli un piatto di minestra!”.
Il giramondo era suo figlio, tornato a piedi dall’Africa, dove era stato fatto prigioniero dagli inglesi nel 1943.
Beatrice non l’aveva riconosciuto, ma gli aveva preparato, comunque, il suo piatto di minestra.

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